La nostra esistenza rischia di trasformarsi nella traversata di un deserto in questi tempi più magri del solito.
Vendere in tempi di crisi mette gli operatori di fronte a un bivio morale: sfruttare le paure dei clienti o compartecipare al rito dell’ansia collettiva?
Come venditori si ha l’impressione, a volte, di essere costretti a dover per forza piazzare qualcosa di cui non c’è bisogno.
È un sentimento comprensibile nell’età dell’opulenza: il mercato ha bisogno di consumare ed essere “tenuto in tiro”, ma è strapieno di cose e servizi.
Tutto ciò ha garantito un’epoca di benessere senza precedenti di cui ancora godiamo ampiamente.
Va tenuto conto, inoltre, che il commercio e la compravendita hanno permesso di sviluppare prodotti e servizi che hanno contribuito ad allungare la vita e la sua qualità.
L’aumento della popolazione mondiale, da un miliardo e seicento milioni del 1900 ai sei miliardi di oggi, è un segnale abbastanza sintomatico dei vantaggi dello scambio commerciale.
Quindi via i sensi di inadeguatezza per chi vende.
Vendere e comprare hanno fatto bene all’umanità sin dalla notte dei tempi.
Ora, però, il momento è teso, e la scarsa liquidità implica una attenzione più accurata di chi acquista, che non vuole portare a casa nulla che non sia utile o vantaggioso.
Ma che vantaggio c’è nel proporre qualcosa a chi ha già tutto ed è anche teso e angosciato per le notizie sulla situazione economica attuale?
A mio parere c’è una scelta giusta e proficua per le due parti, e passa attraverso una parola inconsueta per l’economia: “compassione”.
Il senso che mi piace attribuire a questa parola è quello del desiderio del bene del prossimo.
il punto risponde a due quesiti:
1. Sto facendo qualcosa di moralmente giustificato spingendo le vendite?
2. Dove trovo l’energia per continuare a spingere?
Essere compassionevoli significa prima di tutto vedere noi stessi negli altri.
Il loro bisogno è il nostro, il nostro è il loro, a volte cosciente, a volte da portare alla luce.
Questo implica anche rifiutarsi di vendere “non importa cosa”, e qui serve scienza e coscienza per riconoscere cosa è utile e cosa non lo è.
Questa è la risposta alla prima domanda: certo che è morale!
In percentuale pari al grado di reale utilità fisica o psicologica che si porta in dote al cliente.
Zero utilità, zero moralità. Cento utilità, cento moralità.
I benefici del gioco di mercato non sono da buttare, ma non sono da buttare nemmeno le esigenze degli attori, soprattutto di chi compra, che poi siamo tutti.
La risposta alla seconda domanda è una derivata di questi ragionamenti:
la mia energia nasce dalla consapevolezza che giorno dopo giorno, come consulente, risolvo problemi alla gente.
E il mondo ha bisogno di gente che risolva problemi; piccoli o grandi, ma che li risolva.
Sicuramente occorre esercitarsi a saper dire di no, quando il conto non torna e si diventa pedine anziché attori della vendita.
Ma la sfida del venditore compassionevole è questa: vendere e potersi sempre guardare allo specchio con ammirazione.
“La conoscenza del prossimo ha questo di speciale: passa necessariamente attraverso la conoscenza di se stessi”
(Italo Calvino)