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Superare le crisi aziendali con l'intelligenza emotiva

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«In questa fase di crisi prolungata i manager hanno bisogno di applicare l’intelligenza emotiva per mantenere la freddezza necessaria a evitare scelte avventate e ad ascoltare i consigli costruttivi che possono arrivare dai colleghi». È il pensiero di Daniel Goleman, voce autorevole nel campo della psicologia, intervistato in esclusiva per l’Italia in occasione del recente a Milano.

 Nato in California, laureato ad Harvard con una tesi in "Psicologia clinica e sviluppo della personalità", Goleman è autore di diversi saggi e articoli sul tema dell’intelligenza emotiva e ha ricevuto due candidature al premio Pulitzer. «Si tratta di un principio che torna utile in tutte le occasioni, a maggior ragione quando ci sono difficoltà come ora. Indipendentemente da quanto sia tecnicamente capace e dal suo livello di intelligenza, un leader (e il discorso può essere esteso al suo staff) per avere successo deve essere in grado di gestire le proprie emozioni. Per farlo occorrono quattro abilità principali, che si possono sviluppare con il tempo: essere consapevoli di se stessi e delle proprie emozioni; usare questa forza per tenere sotto controllo le emozioni stesse, in modo da potersi concentrare sulle proprie mansioni aziendali; il terzo punto è l’empatia, vale a dire cercare di comprendere lo stato d’animo altrui, in modo da instaurare una comunicazione efficace; infine è fondamentale mettere insieme tutte queste capacità e applicarle nelle proprie relazioni quotidiane».
Qualcuno potrebbe obiettare che la difficoltà sta proprio nel combinare tutti questi principi mentre tutto sembra crollare…
«Certamente l’applicazione pratica non è facile, ma occorre una lunga formazione. Innanzitutto occorre ricordare sempre che tra i cardini dell’intelligenza emotiva c’è la capacità di far prevalere le emozioni positive e di usare l’empatia per sintonizzarsi con le esigenze degli altri. Un buon manager ha il dovere di essere ottimista e diffondere questo stato d’animo tra i suoi collaboratori, perché anche loro stanno attraversando un periodo difficile. Non parlo di ottimismo di maniera o irrazionale, ma di spirito positivo con il quale contagiare gli altri. Controllare le proprie reazioni emotive significa sia essere capace di pensare chiaramente in condizioni di stress e prendere quindi buone decisioni, sia non rovinare le relazioni interpersonali con atteggiamenti aggressivi o scostanti». 
Tra i suoi libri più famosi c’è "Trasparenza. Verso una nuova economia dell’onestà". Ritiene che, dopo i tracolli e gli scandali degli ultimi anni, ci sia più spazio per l’etica in azienda?
«Diciamo che ci sono tutte le premesse per andare in questa direzione. Sta crescendo la sensibilità dei consumatori su questi temi e questo spinge le aziende a dare risposte credibili. Del resto, non è detto che essere trasparenti produca effetti negativi sul business. Prendiamo una banca: la prima che deciderà di essere davvero trasparente nelle sue azioni potrà godere di un vantaggio competitivo non indifferente, che potrà valorizzare anche attraverso apposite campagne di comunicazione». 
Quali consigli dà alle aziende che si preparano ad assumere i giovani laureati?
«Il mio consiglio è di fare dell’intelligenza emotiva il fulcro delle proprie strategie per la crescita del personale. Di solito è di routine fornire programmi di coaching ai massimi livelli dirigenziali, ma finisce lì. Invece occorrerebbe adottare la medesima strategia per tutti i collaboratori dell’azienda, fino ai neoassunti. Competenze come la consapevolezza di sé, la capacità di gestire le proprie emozioni e l’empatia possono essere apprese in qualsiasi momento della vita: negli Stati Uniti si sta formando un movimento che auspica l’insegnamento dell’intelligenza emotiva già nella scuola dell’obbligo. Nella formazione dei dipendenti più giovani, le aziende dovrebbero porre enfasi su collaborazione, lavoro di squadra e comunicazione: tutte soft skill che prescindono dalle competenze tecniche e da quelle settoriali. So che è difficile investire oggi in formazione, ma ne va della capacità competitiva dell’azienda nel mediolungo periodo».

Luigi Dell'Olio

 

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